In occasione della giornata della memoria, proponiamo alcune riflessioni psicoanalitiche che permettano di confrontarci con l’importanza e la fatica del rinnovare la testimonianza e il ricordo dei crimini contro l’umanità.
Il primo problema è il ricorso automatico alla negazione: la condivisione degli stati affettivi è complicata, perché possono superare il livello della nostra tolleranza. Tutto ciò che oltrepassa il tollerabile viene respinto attraverso la negazione, un meccanismo di difesa con il quale la mente si protegge da esperienze troppo dolorose disconoscendo la portata affettiva o le conseguenze di quanto accaduto.
Il problema della fuga dall’angoscia
L’incapacità di riconoscere l’orrore, combinata con l’alienazione che produce, può essere vista come una fuga dall’angoscia. Il problema della fuga dall’angoscia affligge sia le vittime sia chi assiste. La forma di riconoscimento che riesce a testimoniare le ferite del passato può dipendere molto da quanto tolleriamo i sentimenti relativi alla nostra capacità di agire il male.
Il problema è ciò che possiamo contenere senza dissociazione e autoprotezione. Ecco che allora la nostra fatica è il riconoscimento di quelle parti di ciascuno di noi che si sentono mostruose e della vergogna che ciò induce. L’incapacità di essere empatici può infatti essere ostacolata dalla vergogna, sentimento che paralizza la capacità di connessione con gli altri. L’accettazione di questi sentimenti fa rinunciare alla protezione del nostro Sé per poter ascoltare il dolore dell’altro.
Lo scrittore israeliano Etgar Keret afferma: «Ciò che è successo, drammatico, immane, fa parte della vita, dell’essere umano. Non dovremmo disumanizzarlo riducendo gli Ebrei a nient’altro che vittime e la loro storia a una semplice lotta tra bene e male. C’è qualcosa in questa semplificazione che blocca qualunque possibilità di empatia».
Il terrore di vivere in un mondo ingiusto
Infatti, un forte impulso a negare la sofferenza dell’altro è la paura di vivere in un mondo fatto di cattiveria. Accettare la realtà di vivere in un mondo senza speranza di redenzione, senza bontà, può essere troppo terrificante. È la protezione dal terrore di vivere in un mondo senza giustizia. Razionalizzare l’angoscia che sentiamo quando non siamo in grado di rendere il mondo buono e giusto non ci consente alcuna partecipazione emotiva, e ci limita ad osservatori distaccati, in una situazione di privilegio, di eventi ridotti al semplice binarismo vittima-carnefice.
Il conflitto non è solo tra altruismo e aggressività ma tra credere che la riparazione del mondo sia possibile. Fondamentale a questo proposito è la testimonianza empatica, personale e collettiva. A livello sociale è determinata dagli occhi e dalla voce del mondo che osserva e sostiene ciò che è giusto esprimendo la condanna e l’indignazione per l’ingiustizia e le ferite, i traumi e le sofferenze subite dalle vittime. La sofferenza o la morte delle vittime diventa quindi dignitosa e le loro vite hanno un valore. Le loro vite sono degne di essere piante, sono degne di lutto.
Recuperare la vulnerabilità umana
A livello personale è la possibilità di ammettere dentro di noi il conflitto tra forze compassionevoli e forze autoconservative e lottare per trasformarlo non negando l’impulso autoprotettivo di voltare le spalle ma esaminando le sue fonti. Il recupero non solo della distruttività ma anche della vulnerabilità umana significa che stiamo osservando non da una distanza sicura di dissociazione ma da una che è stimolata dall’empatia e dall’identificazione. Dipende, quindi, dalla nostra capacità di mantenere l’identificazione con l’altro sofferente.
Quantomeno siamo in grado di identificarci genuinamente con tutte le parti dell’esperienza emotiva, tanto più lasciamo indiscussa la nostra stessa propensione a identificarci con una parte dell’opposizione vittima/carnefice, della debolezza contro la forza. Più diventa astratto il nostro calarci nelle esperienze altrui più è probabile che trasformiamo la ricerca della verità e della giustizia in mera moralizzazione.
La posizione dell’ascolto empatico include questa capacità di accettare identificazioni multiple. La nostra umanità dipende da reciproco riconoscimento gli uni degli altri e del nostro ineluttabile attaccamento. La convinzione che l’umanità di una persona dipenda non solo dal rispetto che si riceve ma anche dalla qualità del riconoscimento che si dà, che la propria dignità sia promossa dando riconoscimento, è il fondamento etico della responsabilità.
Il riconoscimento empatico del dolore altrui
La distruttività non si oppone all’amore ma alla responsabilità. Il rispetto della sofferenza e la testimonianza del danno morale è a livello sociale la base dell’interconnessione contrapposta all’individualismo. Muoversi verso l’altro è la miglior risposta al pericolo e al dolore favorendo il coinvolgimento e l’attaccamento. Una risposta di riconoscimento può far sì che si passi dalla dissociazione al contatto. Quando viene data voce alle vittime la loro funzione non è solo quella di richiedere un riconoscimento ma anche di ripristinare un senso di giustizia, il principio che siamo tutti umani, che la vulnerabilità e la sofferenza devono essere onorate e soddisfatte con giustizia , che devono ricevere dignità piuttosto che disprezzo. Quando il trauma personale o collettivo viene negato, il crollo della giustizia viene normalizzato, le vittime spesso oscillano nel dubbio che la loro sofferenza non sia importante e vengono così spinte alla vendetta. Esiste una relazione inversa tra riconoscimento e negazione in cui il riconoscimento negato può intensificare la vendicatività e il vittimismo e può portare ad ulteriori violenze.
L’importanza della testimonianza
Questo senso di tradimento e ingiustizia crea l’impulso di dimostrare al mondo attraverso l’atto di violenza ciò che si ha sofferto. Alla fine la ricerca non è più del riconoscimento ma di affermare di aver ragione. L’atto di violenza diventa una versione alienata dell’atto di testimonianza, fatto di fronte all’indifferenza: quando il testimone fallisce, la vittima testimonia attraverso le sue azioni o persino la vendetta: dichiara al mondo che si è voltato di fronte alla sua sofferenza. La negazione dell’importanza di aver fatto male alle vittime rafforza il senso di impotenza, che viene dato per scontato.
Solo l’importanza della testimonianza come gesto riparativo permette di superare l’impotenza anche se non è piu possibile ripare le ferite. Una volta che al dolore viene data dignità e viene riammesso alla consapevolezza è colui che nega in modo dissociativo che si sente mostruoso.
Da qui deriva il senso di colpa, persino di mostruosità di essere spettatori: dobbiamo continuamente riscoprire non solo il rimorso di non riuscire a testimoniare, ma il fatto che la negazione sia basata sulla riluttanza a conoscere queste terribili cose su noi stessi: noi esseri umani mostruosi. È il passare da: ”non potrei mai immaginare di fare una cosa del genere” a “potrei immaginare di farla”.
Accettare la cattiveria e la realtà dell’odio come forza nella vita sociale è una parte del viaggio per coloro che si espongono realmente alle violazioni dei diritti umani, ai traumi collettivi e agli orrori con la speranza di assistere o aiutare attivamente. Il rimorso e il riconoscimento dei nostri desideri di sfuggire sia l’identificazione dolorosa con la vulnerabilità sia la proiezione odiosa di essa nell’altro, sembrano essere un punto di partenza per un’etica di un mondo in cui tutti hanno diritto a vivere. A questo proposito c’è molto da imparare da coloro che hanno accettato la perdita e la sofferenza causate dalla violenza, che hanno sperimentato la realtà dell’odio e della distruttività sul proprio corpo, le cui narrazioni e testimonianze sollevano la nostra dissociazione e consentono il nostro spostamento dalle posizioni convenzionali di vittima e carnefice e chi ha dignità e chi è scartato.
Photo credit: IG@ Paul Blow