“Facing it” è un toccante cortometraggio di Sam Gainsborough (2018) che affronta il delicato tema dell’ansia sociale, problema comune e diffuso in molte persone, tanto che si stima che una persona su 13 ne soffra. In maniera originale, con una tecnica mista fatta di live action e animazione in stop motion ci fa compiere un viaggio nella mente del protagonista, partendo dalla situazione presente e causa di disagio in un andirivieni tra mondo esterno e mondo interno, presente e passato in cerca di un significato al proprio malessere.
“Facing it” significa “fronteggiarlo”: la persona vorrebbe fronteggiare il proprio malessere, è combattuta tra il desiderio di fronteggiarlo e la tentazione di ritirarsi, ma in entrambi i casi, sia nell’esposizione che nella rinuncia, è in gioco un grande costo psicologico. “Facing it” gioca anche con il metterci la faccia: nelle situazioni sociali tanto temute la persona teme di ‘perderci la faccia’, ma a un livello più profondo la faccia diventa metafora del potersi riconoscersi ed essere riconosciuti. La paura dell’altro e di eventuali giudizi frenano il protagonista Shaun, che, lasciandosi andare ai ricordi del passato recupera dolorosi episodi di vita familiare in cui emerge tutta la solitudine dell’allora bambino a cui è stata negata la possibilità di accesso al proprio mondo emotivo.
Al momento in cui la persona con fobia sociale è costretta ad esporsi, manifesta spiccati ed eclatanti sintomi di attivazione neurovegetativa tra cui palpitazioni, vertigini, tremori, rossore, sudorazione, vampate di calore. Il timore che possa sopravvenire un tale sconvolgimento emotivo (anche semplicemente il rossore del volto) monopolizza l’attenzione del soggetto che si concentrerà unicamente sull’atteggiamento dell’interlocutore, per capire se il disagio è stato percepito e, in questo caso, l’elevazione dei livelli di ansia aumenta la tensione così da determinare, realmente, difficoltà sul piano comportamentale, le quali, a loro volta, rinforzano i timori del soggetto. La paura che si sente è delle volte talmente ingovernabile da trovare rimedio solo nell’evitamento del cosiddetto stimolo fobico, ovvero la persona farà attenzione a non entrare in contatto con ciò che la spaventa. Anche quando la fobia è molto invalidante, perché limita le libertà dell’individuo, la persona tende a fare qualsiasi cosa per evitare lo stimolo che la spaventa, rinunciando di fatto a vivere liberamente. Il rapporto tra libertà e costrizione, autodeterminazione e adattamento, è un rapporto molto delicato che spesso gioca un ruolo importantissimo dietro la costruzione del sintomo fobico.
Pensiamo a questo punto al peso che può arrivare ad avere sulla vita di una persona la fobia sociale. I timori, sproporzionati rispetto alle situazioni da affrontare, possono essere circoscritti ad alcune situazioni specifiche (ad esempio parlare in pubblico), o potranno invece coinvolgere la maggior parte delle attività sociali, quotidiane e routinarie come chiedere informazioni, entrare in un negozio, telefonare alla presenza di qualcuno. Tanto più numerose saranno le situazioni temute, quanto più la sofferenza e la compromissione del funzionamento saranno amplificate. Questa fobia rappresenta pertanto un importante fattore di rischio rispetto al rendimento scolastico, alla riuscita professionale ed al soddisfacimento relazionale, proprio in conseguenza delle rinunce progressive e dei comportamenti evitanti a cui le persone ricorrono frequentemente per sottrarsi all’intensa ansia e paura che sperimentano.
È a partire da questo vertice che vorrei introdurvi al problema portato dalle persone che sperimentano la “fobia sociale”. Avvertire un certo grado di attivazione in molte situazioni sociali, ad esempio mentre eseguiamo un compito di fronte ad altre persone, è una reazione comune che consente, se rimane entro limiti fisiologici, di ottimizzare la propria performance. Per alcune persone però trovarsi in situazioni sociali come leggere ad alta voce, presentarsi o partecipare ad una riunione costituisce un’esperienza molto angosciante: la paura associata ai contesti di interazione sociale interferisce in maniera significativa sulla qualità della vita e si parla allora di “fobia sociale” o “ansia sociale”.
Le persone che soffrono di fobia sociale, temono di trovarsi in situazioni che le facciano sentire esposte, valutate, ridicolizzate e quando sono esposte a tali situazioni, sono preoccupate di essere valutate ansiose, deboli, pazze, stupide. Temono che il loro disagio sia visibile, ad esempio attraverso l’arrossamento del viso, il tremolio della voce o delle mani, la sudorazione o la difficoltà a portare avanti un discorso. Spesso infatti sono presenti sintomi di natura somatica come tachicardia, disturbi gastrici, nausea, senso di soffocamento – per citarne alcuni. L’individuo ha paura che questi sintomi verranno percepiti e valutati negativamente, creandogli umiliazione e imbarazzo.
È opportuno dire che la fobia, più in generale, rientra nei disturbi d’ansia ed è una paura intensa, persistente e duratura nei confronti di un elemento specifico (oggetto, animale, situazione); la paura è sproporzionata rispetto alla minaccia reale e la persona che la prova, pur essendone consapevole, non può fare a meno di sentirla.
Comportamenti di evitamento sociale possono ritrovarsi in un’ampia gamma di disturbi psicologici ed il nucleo psicopatologico che accomuna queste condizioni è la sensibilità al giudizio degli altri anticipato come negativo. Nell’ansia sociale il giudizio temuto non riguarda né gli aspetti morali (l’azione già compiuta), né le capacità prestazionali (il prodotto dell’azione che si va a compiere), quanto l’intero essere, se stessi come persona, indipendentemente dai connotati morali e dalle qualità intellettive. Il dubbio che sottende l’ansia sociale è un generico: “che cosa penseranno di me?”; il problema non è quello di essere all’altezza nel senso del prodotto della prestazione, ma quello di essere adeguato nel momento dell’esposizione e dell’interazione sociale.
Nella clinica psicoanalitica, alla base del meccanismo psicologico che porta alla formazione di una fobia, starebbe uno spostamento inconscio sull’esterno (l’oggetto/situazione fobica) di contenuti interni fortemente angoscianti. Il contenuto interno può essere di diversa natura: ad esempio, un impulso (il desiderio sessuale, l’aggressività etc.), ritenuto dal soggetto inaccettabile, quindi rimosso e poi proiettato sul mondo esterno. Oppure può essere un conflitto, ancora una volta eliminato dalla coscienza e quindi spostato al di fuori di sé. Spesso il conflitto intorno al quale nasce la fobia sociale può avere a che fare con il raggiungimento dell’autonomia. É come se la persona, anche quando adulta, si trovi ancora, inconsapevolmente, a dover scegliere tra l’autonomia (percepita come rischiosa per il pericolo di disapprovazione o abbandono da parte delle figure di riferimento) o la dipendenza protratta da queste figure. Se questo conflitto rimane irrisolto, la fobia sociale può esserne un esito, in quanto i sintomi che si andranno a sviluppare non consentiranno al soggetto di vivere pienamente e liberamente la propria esistenza.
La teoria psicoanalitica ha interpretato la fobia sociale alla luce dell’interiorizzazione nel Super Io e nell’Ideale dell’Io di rappresentazioni di genitori o agenti di cura o fratelli, idealizzati nelle loro capacità e prestazioni, che inducono vergogna o imbarazzo, criticano, ridicolizzano, umiliano, abbandonano. Questi introietti si stabiliscono precocemente nella vita e vengono poi ripetutamente proiettati in persone dell’ambiente che vengono quindi evitate.
Il lavoro clinico con questi pazienti rivela relazioni oggettuali interne così caratterizzate. In tale contesto, anche il setting terapeutico può essere vissuto come una situazione in cui la persona può immaginare di essere giudicata o umiliata e questa paura può portare a saltare frequentemente le sedute o anche a interrompere la terapia. Il terapeuta dovrebbe sintonizzarsi con l’imbarazzo e la vergogna, che sono gli stati emotivi predominanti e aiutare il paziente ad esplorare le fantasie sulle modalità con cui il terapeuta e gli altri potrebbero reagire per aiutare la persona a rendersi conto gradualmente che la propria percezione su come gli altri si pongono nei suoi confronti potrebbe essere diversa da ciò che gli altri di fatto provano per lui/lei. Nel corso della terapia il paziente può sentire e sperimentare le sue emozioni all’interno della relazione terapeutica. A differenza delle altre relazioni che la persona intrattiene nella sua vita, quella tra terapeuta e paziente rappresenta un contesto protetto e non giudicante dove il paziente può esprimere i suoi vissuti per poterli comprendere ed elaborare. Questo dà al paziente la possibilità di imparare a riconoscere e tollerare le emozioni che prova, a fare esperienza di esse in un assetto relazionale diverso da quelli del passato e a comprendere gradualmente significati del problema di cui non era consapevole.
Come scrive Fonagy, “il segno di un sé deprivato d’amore è la vergogna”. La vergogna è la più sociale delle emozioni, quella che, ricorda Freud nell’Interpretazione dei Sogni nasce alla cacciata dall’Eden, ovvero al passaggio dall’animalità all’umanità. Essere umani ha a che fare con l’”esser-ci” heideggeriano, dove il linguaggio è ciò che è reso possibile da un co-sentire e comunicare inconscio di natura sia preverbale sia verbale, che a sua volta creativamente perpetua questa possibilità. Il linguaggio fonda un orizzonte di senso, ma condividere questo orizzonte di senso non è sufficiente. Per sentirci soggetti dobbiamo avere salde radici in questo terreno comune, ma anche riappropriarci della nostra singolarità, del nostro destino di individui separati. Ad alcune persone è mancato il sentimento che potevano esistere per qualcuno semplicemente per quello che erano, spesso hanno ricevuto il messaggio che non potevano esistere o potevano esistere solo se si conformavano alle aspettative degli altri e quindi rinunciavano a essere se stesse. La rabbia, che spesso si alterna o sostituisce alla vergogna, è la vergogna che non sappiamo di provare o che non possiamo sopportare: la rabbia sarebbe allora un tentativo di ribellione alla minaccia del proprio senso di esistenza.
Quando il paziente bussa alla nostra porta con il suo disagio – che potrà chiamare fobia, depressione, persecuzione, ecc … – ce ne parlerà raccontandoci una ‘sua’ storia unica e irripetibile, che attiene alle potenzialità di scelte narrative che ognuno di noi possiede. Questa storia in genere avrà la caratteristica di essere poco mobile e con scarse o bloccate possibilità associative. Mi piace pensare all’importanza di poter recuperare, attraverso il percorso terapeutico, possibilità narrative molteplici come rappresentazione di un buon funzionamento mentale, in cui la salute è intesa allora come la capacità di generare e mantenere una molteplicità di prospettive, uscendo dall’unica strada percorribile che aveva portato alla formazione del sintomo, per accedere a una dimensione di maggior libertà e creatività della propria mente.
“Le favole ci insegnano che la paura non va chiusa in uno stanzino, irraggiungibile dentro di noi, ma sentita, vissuta e affrontata” – Eugenio Borgna